1. Generale dietro la collina
Non c'è
niente da fare tutte le volte che andiamo ad incontrare Divjak (*) ci risuonano
le note della famosa canzone di De Gregori e tutte le volte vorremo dire
"e no, caro Francesco, la guerra non è bella, fa solo male, questo sì, fa
molto male".
Quello che è
bello invece e che fa bene, molto bene, è quello che da venticinque anni fa
Jovan Divjak, il signor generale Divjak, che ha continuato a combattere ma su
un fronte diverso e con "armi" diverse. Niente più stivali infangati
(**) e mappe delle postazioni nemiche. Il fronte, da venticinque anni, è quello
della cultura e dell'educazione.
Venticinque
anni di lavoro con bambini, ragazzi, studenti, spesso vittime dirette o
indirette di quel sanguinoso conflitto che ha lasciato profonde lacerazioni in
una comunità e in una città, Sarajevo, in cui si sognava che secoli di multiculturalità
avessero aiutato a sviluppare i necessari anticorpi al nazionalismo, al
fascismo e a tutte le derive identitarie.
Venticinque
anni di lavoro per costruire una nuova Bosnia perché dove la guerra distrugge è
la cultura che costruisce e ri-costruisce.
Per questo
Divjak, il "traditore della compattezza etnica" (***) è al contempo
il più fedele custode del bene del suo popolo, del tentativo di rinascita - non
solo di una nuova Bosnia - ma soprattutto di una nuova umanità.
Per questo
con lui festeggiamo i primi venticinque anni dell'associazione
"L’Educazione costruisce la Bosnia” e auguriamo, al generale e ai suoi
collaboratori, di continuare sulla strada intrapresa, noi - partigiani della
pace e della convivenza - siamo e saremo sempre con loro.
(*) Jovan Divjak, "Sarajevo mon amour"
(**) Izet
Sarajlic, "Ultimo tango a Sarajevo"
(***) Alex
Langer, "tentativo di decalogo della convivenza inter-etnica"
Con Jovan
Divjak davanti all’associazione “L’educazione costruisce la Bosnia”
2. Sono stata profuga anche io
In questi 10
anni di viaggi nei Balcani ci siamo sistematicamente interrogati su cosa
significhi "fare memoria", sul cosa, sul come e sul perché del
"fare memoria".
Ci siamo
interrogati sulla memoria individuale e su quella collettiva, sull'impatto
della propaganda e delle narrazioni ufficiali, sugli strumenti e sulle
strumentalizzazioni.
Sul valore di
una foto, rimasta custodita nel fondo di una valigia o di un frammento di voce,
registrato in una vecchia musicassetta. Sulla storia, quella scritta sui libri
o quella ascoltata sulle ginocchia di un vecchio zio o trasmessa con il latte
materno.
Sulla memoria
urlata e su quella negata.
Sui
"memoriali" e sulle statistiche della macabra contabilità dei caduti.
La nostra
ricerca continua e si arricchisce ogni volta di sfumature, di punti di vista,
di prospettive. Non è una ricerca semplice.
Quest'anno
siamo stati al War Childhood Museum a Sarajevo (*). L'ideatore ha chiesto, a
chi era bambino durante l'assedio, di portare un oggetto di quel periodo e di
scrivere cosa ha rappresentato e cosa rappresenta per lei/lui. È un museo delle
piccole cose, come la valigetta di Miss Petticoat, "tutte le mie memorie
sono in questa valigia".
Lo scorso
anno abbiamo chiesto a Faruk Sehic, scrittore bosniaco, cos'è la guerra. Ci ha
risposto "è una gomma da cancellare". La guerra cancella. Cancella le
vite ma non sempre riesce a cancellare la memoria che resiste anche attraverso
la determinazione di donne e uomini che scelgono di non arrendersi all'oblio.
Questo attaccamento talvolta può essere continua fonte di sofferenza, più
spesso ci dovrebbe ricordare chi siamo, da quale storia veniamo perchè nel
salvare la memoria possiamo salvare un pezzo di questo mondo. Per questo
quel “anche io” scritto da Iva nel
titolo del suo commento è un potente collante, un cortocircuito pazzesco tra
storia e attualità. In quel “anche io”
leggo la capacità di Iva di leggere e riconoscere, nelle attuali cronache, la
sua stessa storia, di non restarne indifferente e di sapere da quale parte
stare.
Sono stata profuga anche io
Avevano già iniziato a sparare sulla
città. Una sera papà ci ha detto: "Domani andate al mare". Ho
preparato la valigia: costume da bagno, sandali e il mio diario. Si va al
mare!
Il mattino dopo, mio fratello, mia
madre, la zia e io, ci siamo aggregati a un convoglio che lasciava la città.
Andiamo al mare...
Il convoglio è stato fermato da persone
mascherate. Ci hanno tenuti tre giorni in ostaggio.
Vedrò mai il mare?
Due mesi dopo sono arrivata in Olanda. E
sto ancora lì.
Tutti i miei ricordi sono in questa
valigia.
Iva, 1981.
3.
Chi mai riuscirà a raddrizzare la storta Drina?
Nel programma di viaggio avevamo scritto “navigando lungo il canyon della Drina da Srebrenica (lago Perućac) a
Višegrad”. Višegrad, la città del ponte sulla Drina. Per chi ha letto il
romanzo di Ivo Andric (*) è emozionante anche solo pensarci, per chi – venendo
da Venezia - ama la vita sull’acqua arrivarci in battello navigando sul fiume
non poteva che essere il modo migliore.
Alla fine è stata una giornata caratterizzata da forti contrasti, dove
tutto strideva.
Il contrasto tra la bellezza del fiume e del parco nazionale del monte Tara
e l’incessante pensiero che quel fiume è la più grande fossa comune dei
Balcani dove tra il 1992 e il 1995 (ma precedentemente anche durante la seconda
guerra mondiale) centinaia di persone sono state ammazzate e gettate nelle sue
acque (**)
Il contrasto tra un aldiquà e un aldilà, dove la Drina è fiume di confine
fin dai tempi dell’Impero Romano occidentale ed orientale e oggi tra Bosnia e
Serbia, confine che può essere luogo di incontro o di scontro, luogo di scambio
o di chiusura.
Il contrasto, nella narrazione fatta della guida a bordo del battello, tra quello che viene detto e gli omissis.
Il contrasto tra chi naviga stando sulla superficie e chi proprio non riesce a
stare a galla ma si immerge fino al collo.
Il contrasto tra la finta Andrićgrad, l’outlet del nazionalismo dove a buon
mercato si trovano simboli e segni piegati in una discutibilissima operazione di
costruzione di identità serba che unisce Gavrilo Princip a Emir – Nemanja –
Kosturica e il ponte di pietra fatto costruire da Mehmed pascià Sokolović, nel
1571, un ponte, appunto, esempio massimo di ciò che unisce ma che forse non
basta costruirlo perché poi qualcuno lo attraversi.
Non si riuscirà mai a raddrizzare la storta Drina, cosi come con il "legno
storto" di cui secondo Kant è fatto l’uomo non si potrà mai costruire qualcosa
di perfettamente dritto, ma rimane forte la voglia almeno di provare a
rimettere al loro posto le cose.
La verde Drina
(*) “Il ponte sulla Drina”, Ivo Andric
(**) Višegrad. L’odio, la morte, l’oblio (https://www.infinitoedizioni.it/prodotto/visegrad/)
4.
Essere o non essere
Al Centro di Identificazione per le persone scomparse
di Tuzla (ICMP), Dragana sta lavorando ad un caso. Qui, da anni, si cerca
letteralmente di mettere insieme i pezzi delle persone ammazzate durante il
genocidio di Srebrenica, dare loro un nome e restituire alle famiglie il
proprio caro scomparso. È un lavoro lungo, difficile e che purtroppo non vedrà
mai la fine.
Come sempre la sua testimonianza è sconvolgente, resa
ancora più dura dal fatto che questa volta, sul tavolo dell’anatomopatologa
forense, vediamo dei resti umani sistemati, come si dice tecnicamente, in
posizione antropologica.
Per spiegarci alcune cose sulla procedura di
riconoscimento ad un certo punto solleva il cranio con la mano. Ma Dragana non sembra vivere nel dubbio
amletico, lei ha scelto chiaramente cosa vuole essere. Tenacia,
professionalità, coraggio per essere dalla parte della verità e della
giustizia.
Quella delle persone scomparse e non ancora ritrovate
è una tragedia nella tragedia: ci sono madri, le donne di Srebrenica, che
attendono di poter dignitosamente seppellire i loro cari portati via dalla
violenza del conflitto. Quest’anno, nelle celebrazioni a Potocari dell’11
luglio verranno sepolte 33 persone riconosciute nell’ultimo anno. Ma, oltre
alla sepoltura, ogni anno ci sono riesumazioni perché nel lavoro di ricerca si
possono trovare altri resti che le famiglie desiderano riporre insieme ai resti
precedentemente inumati ma aprendo ogni volta una ferita che fatica a
rimarginarsi anche per le condizioni in cui si vive a Srebrenica dove il
termine “genocidio” viene negato da parte della maggioranza dei serbo-bosniaci
(*)
5. I Bosniani
Mi danno il suo numero dall'ambasciata italiana, ci
serve un interprete per fare la denuncia del furto del portafoglio di Noemi.
Parla bene italiano, il suo aiuto è prezioso. Lara si definisce freelance:
guida turistica, compravendita case, qualche lavoro con l'ambasciata. Dopo aver
completato le pratiche le chiedo se ha voglia di bere un caffè, accetta
volentieri. E si racconta, mi dice che è sarajevese e poi aggiunge di essere serbobosniaca.
Non le chiedo l'età ma più o meno siamo della stessa generazione. Sono rimasti
nella Sarajevo assediata per i primi 18 mesi poi, pagando due mafie, quella
bosniaca e quella serba, hanno lasciato la città. È tornata a guerra finita,
nel 1998. Dei suoi compagni di classe sono ritornati solo in 4 gli altri fanno
parte della diaspora, tornano d'estate, molti comprano casa, pensando ad una
vecchiaia in patria dove con una pensione italiana, svizzera, austriaca
potranno vivere in modo agiato. "Avrei potuto lavorare là - indica il
palazzo del parlamento che si trova poco lontano - ho un curriculum pesante ma
dovrei avere la tessera di un partito nazionalista. Molti miei amici l'hanno
fatto, io non lo farò mai". Non c'è rabbia nella sua voce, solo una grande
determinazione. E la mia ammirazione.
PS vorrei ricordare anche Damir, autista di autobus a Sarajevo, che ha ritrovato la
carta di identità che era stata rubata assieme al portafoglio e l’ha riportata all’ambasciata. L’abbiamo chiamato per offrirgli una “ricompensa”, ci ha
ringraziati del pensiero e ci ha detto di non preoccuparci e che non ci voleva far
perdere altro tempo. Grazie Damir.
…
Tre ore di macchina, da Sarajevo a Srebrenica, senza
quasi parlare. Ci proviamo ogni tanto ma Elvis non parla italiano né inglese,
io non parlo bosniaco.
Butto lì qualche parola, qualche nome di possibili
amici in comune tra le persone che in questi anni ho conosciuto a Srebrenica.
Mi fa segno di aprire il vano portaoggetti della sua auto. C'è una busta portafoto.
Mi fa segno di aprirla e di guardarla. È la foto di un adolescente, la gamba
fasciata ma il volto sorridente... Dice che è lui, a Srebrenica durante la
guerra.
Ci fermiamo a Potočari. Entriamo in silenzio, Elvis ci
precede, si avvicina al monumento che porta iscritti i nomi di tutte le vittime
del genocidio. Ci indica un nome tra gli oltre 8.000, passandoci sopra con il
dito, come una carezza. "My father, 1960". Trattengo a stento le
lacrime mentre usciamo in silenzio.
…
Zijo scherza sul suo essere rom e su come ha scoperto
le sue origini. Da bambino, molto piccolo, era stato dato in affido ad una
famiglia in Slovenia, era una pratica in uso nella ex Jugoslavia: quando una
famiglia si trovava in difficoltà nel crescere dei bambini si ricorreva
all’aiuto di altre famiglie. Un giorno, sotto casa, è arrivata una macchina
“zigana” e lui si è spaventato perché pensava che degli zingari lo volessero
portare via. Così ha conosciuto la sua vera famiglia. Di famiglie poi ne ha
avute molte, l’istituto in Montenegro dove è stato accolto dopo il massacro
della sua famiglia nel 1992 ad opera di un gruppo di paramilitari
serbobosniaci, l’orfanotrofio di Tuzla, la casa Pappagallo sempre a Tuzla che
sostiene i neomaggiorenni nel percorso verso una completa indipendenza fino alla
famiglia tutta sua, con sua moglie Ramiza e la bellissima piccola Sara. Ma mi
piace pensare che oggi Zijo sia anche parte di una famiglia “allargata”, fatta
di tutti noi che ci sentiamo parte della sua storia.
Perché Zijo ha una straordinaria capacità, quella di
“sparigliare” le carte. Il suo matrimonio è stato definito anche dalla stampa
locale come il ritrovo di una piccola Jugoslavia dove c’erano proprio tutti:
montenegrini, serbi, bosgnacchi, croati, rom, ebrei. Lui sa guardare oltre le
appartenenze, le differenze, le distanze. Ha imparato a distinguere e superare
le categorie, gli schemi e i pregiudizi. E della cultura rom ha mantenuto un
tratto prezioso: sa prendere da tutti ciò che trova di buono, per questo è un
vero king, “a gipsy king”
…
Osmače è un villaggio nei dintorni di Srebrenica ed è
una tappa obbligatoria dei nostri viaggi. Lì Zuhra ogni anno ci prepara uno
squisito e abbondante pranzo contadino. Lì ascoltiamo commossi le storie di
Muhamed e di Omer, storie di resistenza e ricostruzione, storie di andata e di ritorno.
Loro sono testimoni diretti di ciò che sono state le guerre degli anni novanta e,
grazie alla confidenza che si è venuta a creare nel corso degli anni, il loro
non è mai solo un racconto. Mi colpisce quest’anno la minuziosa ricostruzione
demografica dell’attimo precedente al conflitto. Muhamed snocciola numeri
esatti, non dice “circa 1000 persone vivevano qui”, no lui dice 941 persone
vivevano qui, ci dice il numero esatto di uomini e donne, di adulti e bambini.
È come se il numero esatto, preciso all’unità fosse un invito a ricordare che
dietro ogni numero c’è una persona, non ci può essere approssimazione quando si
parla di vite umane, non c’è un “tanto al kilo”. E molte di quelle persone non
ci sono più, non c’è più suo padre che ora sarebbe felice nonno di due
splendide e vivaci creature, Azam e Mustafa, non ci sono il fratello di Omer,
la cognata e il figlio che portava nel grembo ammazzati vigliaccamente nel
genocidio di Srebrenica nel luglio del 1995 e i cui resti sono stati ritrovati
e sepolti solo lo scorso anno. Ma qui,
come scrive il poeta bosniaco Mak Dizdar ripreso
alla Kapja a Tuzla, il memoriale della strage di giovani il 25 giugno del 1995,
“Qui non si vive solo per vivere.
Qui non si vive solo per morire.
Qui si muore per vivere”
....
Se Bihać è stata tappa del nostro viaggio è anche
perché per questa città, nell’ultimo anno, sono transitate 30mila persone
migranti. Qui il loro viaggio, iniziato in Afghanistan, in Pakistan, in Iran,
in Siria, in Algeria si è fermato, sbattendo contro la “fortezza Europa”. A Bihać,
nell’ultimo anno, la Croce Rossa ha gestito alcuni campi di accoglienza
distribuendo 1 milione e 800 mila pasti e altrettanti vestiti. Ce lo racconta
Selam, operatore della Croce Rossa che ci aiuta a capire meglio come certi
meccanismi e certe decisioni prese dall’alto si scaricano poi a terra sulle
spalle di chi, come lui, lavora per restituire un po’ di dignità a questi
giovani in cammino.
Ci racconta che i migranti hanno un obiettivo molto
chiaro che è quello di arrivare in Europa, per questo e grazie all'esperienza
di viaggio che hanno già sulle spalle sono disposti a vivere con poco e
adattarsi a tutto.
La Croce Rossa lavora “al buio” senza alcuna copertura
formale e ufficiale da parte dello Stato. Lo fanno perché sono la croce Rossa. Lo
fanno perché è una crisi umanitaria assolutamente non gestita, in cui le
persone sono abbandonate a loro stesse, alla deriva anche sulla terraferma,
naufraghe sulla rotta balcanica. Di fronte a questo lapidario ci dice "io
le spalle non le volto".
Parliamo di violenza ed è interessante ascoltare cosa,
in modo molto laico, ci racconta.
C’è una volenza della polizia locale che lui spiega
essere l'effetto finale le cui cause a monte vanno ricercate soprattutto nella
mancata gestione del fenomeno. In città i migranti si muovono in gruppo, sanno
come chiedere le cose, sanno come muoversi spesso sanno come
attaccare. Tra gruppi di migranti si verificano episodi di violenza frutto
delle condizioni in cui si trovano a vivere per questo servirebbe lavorare sul
versante della prevenzione, se si lascia la giungla vale la legge del branco
C’è poi la violenza della polizia di frontiera che non
è necessaria, non è funzionale a ridurre o contenere una situazione più grave
ma è strumentale, è usata come deterrente, che sia di esempio per gli altri di
quello che può succedere, così vengono rubati soldi, rotti i cellulari, presi a
manganellate. Probabilmente se parlassimo con le autorità di frontiera ci
sentiremo rispondere: “è l’Europa che ce lo chiede”.
Con Selam andiamo al campo "temporaneo" di Vucjak.
Dista 15 minuti da Bihać, in mezzo al nulla ma a soli 10km dalla frontiera
croata che rimane oltre le montagne. 10 km per chi ne ha alle spalle più di
1.000 sono nulla. Il campo è stato voluto dalla municipalità contro le
indicazioni del Cantone, dello Stato e della commissione europea. È come un
trampolino di lancio per cercare di entrare in Europa. Molti ci raccontano di
averci provato ma di essere stati respinti dalla polizia di frontiera croata.
Bashir, 21 anni, viene dall'Afghanistan dice che ha
impiegato un mese a piedi per arrivare qui senza problemi ma ora è bloccato.
Scappa dai talebani e ci spiega, mimando, che al fratello hanno tagliato la
gola. "Quando riaprite le frontiere come il 2015?" Vuole andare
in Germania dove molti membri della famiglia sono arrivati negli anni scorsi.
Nel campo ci sono ca. 500 persone (difficile conoscere
il numero esatto ci sono continui arrivi e partenze), servizi igienici, un
tavolino in cui si vendono snack e energy drink e che chiamano eufemisticamente
negozio, una cassa con della musica, un generatore con una cinquantina di prese
per consentire di ricaricare il telefono in turni da 5min, fanno la fila
davanti a quel groviglio di cavi che è come un cordone ombelicale che li tiene
collegati al mondo, qui, fuori dal mondo dove le giornate passano nella
logorante attesa del prossimo tentativo di “bruciare la frontiera”. È qui dove mi
vergogno di essere Europeo.
Qualche giorno prima il dramma dei migranti ci aveva
già colpito come uno schiaffo. Due ragazzi afgani, a Sarajevo, sono riusciti ad
infilarsi durante la notte nel vano motore del nostro autobus parcheggiato di
fronte all’hotel. Ora provate per un momento ad immaginare due persone
letteralmente incastrate nello spazio angusto del vano motore di un autobus.
Senza potersi muovere, senza acqua nè cibo, senza poter espletare bisogni
fisiologici, con un caldo infernale - la temperatura esterna quel giorno era di
35/36 gradi, il bus è rimasto per alcune ore fermo sotto il sole a Potočari la
temperatura lì dentro ha facilmente sfiorato i 50 gradi - fermi lì dentro per
almeno 8/10 ore. E nel momento in cui sono stati trovati immaginate cosa
possono aver provato quando hanno capito che non erano in Italia, come
probabilmente speravano avendo visto la targa del bus, ma a Srebrenica, dalla
parte opposta, di nuovo vicini al confine con la Serbia. Li ha portati via la
polizia della Repubblica Srpska, non sappiamo nulla di loro ma proviamo una
enorme tristezza e una infinita rabbia.
…
Bekir, Muhamed, Omer, Azra, Selam, Valentina, Amra, Lara,
Elvis, Zijo, Jovan, sono i “bosniani”, gli abitanti di questo strano e
complesso mondo che è la Bosnia ed Erzegovina. Talvolta, in una terra ancora avvelenata
dalle scorie tossiche delle propagande nazionaliste dove la comunità
internazionale non ha saputo offrire efficaci e duraturi antidoti, questi
“bosniani” ci sembrano degli alieni per la loro scelta di percorre la via della
convivenza, del dialogo, del tradimento della compattezza etnica. Navigano in
“direzione ostinata e contraria” portando su di sé il peso delle loro scelte
per le quali nessuno farà mai alcuno sconto. Forse sono pochi ma noi speriamo
che siano abbastanza.
Campo di Vucjak
6.
Ventisette
Quello che facciamo non è solo
un viaggio nello spazio e nel tempo. È anche un viaggio dentro ciascuno di noi,
è un viaggio per capire chi siamo e cosa vogliamo essere. È un viaggio spesso
doloroso ma che possiamo continuare a fare perché ogni volta viaggiamo con
delle persone straordinarie che si mettono i gioco, che mettono in comune ciò
che stanno vivendo. E quindi grazie a Stefania, Noemi, Samantha, Eleonora, Anna
C, Antonia, Marina, Silvia, Carla, Federica, Anna M, Cristina, Francesca, Francesco,
Luca, Mariangela, Chiara, Fabrizio P, Fabrizio R, Martina, Andrea, Francesco,
Diego, Simona, Giuseppe, Elisa e Denis.
Morte
al fascismo, libertà al popolo!
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