"Io non odio" di Andrea Rizza Goldstein

A partire da aprile 1992, tutta la Bosnia nord-orientale è stata teatro di una estesa operazione di pulizia etnica ai danni dei musulmani bosniaci (bosgnacchi), congegnata dall’establishment politico della Republika Srpska, esplicitata nei cosiddetti “obiettivi strategici” del 1992 e realizzata inizialmente dalle forze di polizia del Ministero dell’Interno della Republika Srpska (Mup) con il supporto e la collaborazione del Ministero dell’Interno della Serbia (addestramento dei gruppi di paramilitari serbi e serbo-bosniaci, fornitura di supporto logistico, di intelligence e messa a disposizione di ufficiali di collegamento) e dell’Esercito Popolare Jugoslavo (fornitura di armi e logistica per armare la popolazione serbobosniaca e l’Esercito della Republika Srpska Vrs). Il massacro di Skocic, villaggio abitato prevalentemente da rom musulmani, situato nella Municipalità di Zvornik, ai confini con la Serbia, è uno dei tanti crimini di guerra commessi nell’ambito delle pulizie etniche del ’92.

Zijo Ribic, sopravvissuto al massacro del villaggio, nel 2005 entra in contatto con Natasa Kandic, premio Alexander Langer 2000 e fondatrice del “Humanitarian Law Center” di Belgrado. Decide di raccontare la sua storia e denunciare gli autori dello sterminio della sua famiglia e del suo villaggio.
Grazie al sostegno e all’assistenza della Kandic e della sua organizzazione, vengono intraprese le indagini e nel 2009 inizia, a Belgrado, il processo contro gli autori del massacro di Skocic. Zijo è il primo rom ad aver portato in tribunale la questione del genocidio del suo popolo. Un genocidio dimenticato, passato in secondo piano sia durante la Shoah, che durante le guerre jugoslave degli anni Novanta: dei 45.000 rom che vivevano in Bosnia orientale, oltre 30.000 sono stati oggetto di pulizia etnica durante la guerra.

“Mi dissero che avrei visto subito mia madre... e hanno sparato. Ho rivisto quelle persone dopo 20 anni... mi ricordo le loro facce, li ho riconosciuti in tribunale. Loro mi hanno massacrato la famiglia. Non so se li odio... I miei genitori non mi hanno insegnato a odiare, perciò questo sentimento non mi appartiene. Anche dopo tanti anni mi ricordo tutto... come se fosse successo ieri.
Mi ricordo quando sono arrivati e ci hanno presi. Prima ci hanno picchiati, cercando oro e armi. Hanno detto che non ci avrebbero fatto niente. Ci hanno raggruppati tutti davanti alla casa... hanno stuprato mia sorella maggiore Zlatija e io ho visto tutto...
poi sono arrivati due camion nei quali ci hanno caricati e portati in un villaggio vicino dove avevano già scavato una fossa comune.
Ci hanno fatti scendere uno alla volta; prima mia madre e mio fratello, poi sono venuti a prendere me. Avevano appena finito di stuprare nuovamente mia sorella. Io piangevo, chiedendo di vedere mia madre. Mi risposero che l’avrei vista subito. Poi, in fila è arrivato il mio turno. Ho sentito degli spari e un fendente di lama nel collo. Ho fatto finta di essere morto. E mi hanno gettato nella fossa insieme agli altri che avevano appena ammazzato”.

Zijo è rimasto per qualche tempo nascosto tra i cadaveri e poi è riuscito a raggiungere il bordo della fossa e a scappare nei boschi circostanti, dove ha vagato sotto shock per qualche tempo. Dopo aver pernottato in una casa abbandonata, il giorno dopo ha raggiunto un villaggio dove ha incontrato una donna che sbrigava delle faccende nell’orto e le ha chiesto aiuto. Questa, spaventata dalla vista di un ragazzino di sette anni coperto di sangue, ha chiamato i due uomini della famiglia: due soldati serbo-bosniaci dell’Esercito Popolare Jugoslavo.

“Mi hanno soccorso subito... mi hanno lavato, medicato e dato da mangiare. Mi hanno dato dei vestiti puliti e poi mi hanno portato a Kozluk in infermeria. Lì ho visto le stesse persone che la sera prima avevano ucciso i miei familiari. Mi sono aggrappato ai due soldati che mi avevano salvato”.

Il comandante dei paramilitari e una ragazza arruolata nella stessa formazione cetnika cercarono di portarlo via, ma i due soldati si rifiutarono di lasciarlo e lo condussero invece all’ospedale di Zvornik, dove rimase fino a ottobre ’95, quando, grazie all’intervento di una Ong internazionale, venne ricoverato nell’istituto “Dr. S. Milosevic” di Igalo (Montenegro). Era pesantemente traumatizzato da quello che aveva vissuto.

Dovevo rimanere nell’istituto solo qualche mese e invece ci sono rimasto fino al ’96. Dovevo curarmi. Poi, grazie a un progetto dell’Unicef, sono stato portato in un orfanotrofio, il ‘Mladost’ a Bijeloj, sempre in Montenegro”.

Dopo cinque anni trascorsi a Bijeloj, Zijo viene rimandato in Bosnia-Erzegovina, nell’orfanotrofio di Tuzla. A Tuzla si diploma presso la scuola alberghiera, diventando cuoco. Nel 2005 Zijo esce all’orfanotrofio e per i due anni successivi viene ospitato da Tuzlanska Amica, a Casa Pappagallo, una struttura per i ragazzi maggiorenni che, usciti dall’orfanotrofio, non hanno dove altro andare.
Il processo iniziato nel 2009 si è concluso a febbraio 2013 con la condanna in primo grado dei sette imputati appartenenti alla formazione paramilitare soprannominata “I cetnici di Simo” a complessivi 72 anni di carcere (Zoran Durdevic e Zoran Stojanovic a 20 anni, Zoran Alic e Tomislav Gavric a 10 anni, Dragana Dekic e Dorde Sevic a 5 anni e Damir Bogdanovic a 2 anni), per crimini di guerra contro la popolazione civile del villaggio di Skocic. Gli imputati hanno fatto ricorso e a giugno del 2015 la Corte di Appello del Tribunale di Belgrado li ha prosciolti, con la motivazione che riguardo all’uccisione di civili del villaggio di Skocic (fatto acclarato e non messo in discussione in secondo grado) gli imputati erano presenti sul luogo del massacro, ma l’accusa non è stata in grado di fornire prove sufficienti per determinare la loro responsabilità individuale.

Zijo ha incontrato più volte - faccia a faccia - i paramilitari.

"Ho rinunciato allo status di testimone protetto perché volevo vedere se riuscivano a guardarmi negli occhi. La prima volta che ho rivisto il comandante della squadriglia mi è passato di tutto per la testa.
Poi ho pensato che se mi facevo vincere dall’odio sarei diventato uguale a loro. A me non hanno insegnato a odiare. Non posso e non voglio dimenticare quello che è successo alla mia famiglia e al mio villaggio. Ma posso decidere di non odiare. È difficile. Ma da qualche parte dentro di te puoi trovare la forza di non odiare. Quando il giudice ha letto la sentenza che scagionava gli autori del massacro, questi mi hanno riso in faccia. Mi veniva da piangere e non volevo. Come si fa a rimanere normali in queste situazioni? Io voglio rimanere normale. Io non voglio odiare”.


Zijo Ribic con Natasa Kandic





Articolo pubblicato su "I fiori di Srebrenica", quaderno della Fondazione Alexander Langer Stiftung, Onlus Nr. 4, ottobre 2015, Una città. 

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