"Di tutte le cose visibili ed invisibili" (viaggio 2019)



1.       Generale dietro la collina

Non c'è niente da fare tutte le volte che andiamo ad incontrare Divjak (*) ci risuonano le note della famosa canzone di De Gregori e tutte le volte vorremo dire "e no, caro Francesco, la guerra non è bella, fa solo male, questo sì, fa molto male". 
Quello che è bello invece e che fa bene, molto bene, è quello che da venticinque anni fa Jovan Divjak, il signor generale Divjak, che ha continuato a combattere ma su un fronte diverso e con "armi" diverse. Niente più stivali infangati (**) e mappe delle postazioni nemiche. Il fronte, da venticinque anni, è quello della cultura e dell'educazione. 
Venticinque anni di lavoro con bambini, ragazzi, studenti, spesso vittime dirette o indirette di quel sanguinoso conflitto che ha lasciato profonde lacerazioni in una comunità e in una città, Sarajevo, in cui si sognava che secoli di multiculturalità avessero aiutato a sviluppare i necessari anticorpi al nazionalismo, al fascismo e a tutte le derive identitarie.
Venticinque anni di lavoro per costruire una nuova Bosnia perché dove la guerra distrugge è la cultura che costruisce e ri-costruisce.
Per questo Divjak, il "traditore della compattezza etnica" (***) è al contempo il più fedele custode del bene del suo popolo, del tentativo di rinascita - non solo di una nuova Bosnia - ma soprattutto di una nuova umanità. 
Per questo con lui festeggiamo i primi venticinque anni dell'associazione "L’Educazione costruisce la Bosnia” e auguriamo, al generale e ai suoi collaboratori, di continuare sulla strada intrapresa, noi - partigiani della pace e della convivenza - siamo e saremo sempre con loro.

(*) Jovan Divjak, "Sarajevo mon amour"
(**) Izet Sarajlic, "Ultimo tango a Sarajevo"
(***) Alex Langer, "tentativo di decalogo della convivenza inter-etnica"


Con Jovan Divjak davanti all’associazione “L’educazione costruisce la Bosnia”

2.       Sono stata profuga anche io


In questi 10 anni di viaggi nei Balcani ci siamo sistematicamente interrogati su cosa significhi "fare memoria", sul cosa, sul come e sul perché del "fare memoria". 
Ci siamo interrogati sulla memoria individuale e su quella collettiva, sull'impatto della propaganda e delle narrazioni ufficiali, sugli strumenti e sulle strumentalizzazioni. 
Sul valore di una foto, rimasta custodita nel fondo di una valigia o di un frammento di voce, registrato in una vecchia musicassetta. Sulla storia, quella scritta sui libri o quella ascoltata sulle ginocchia di un vecchio zio o trasmessa con il latte materno. 
Sulla memoria urlata e su quella negata.
Sui "memoriali" e sulle statistiche della macabra contabilità dei caduti.
La nostra ricerca continua e si arricchisce ogni volta di sfumature, di punti di vista, di prospettive. Non è una ricerca semplice. 
Quest'anno siamo stati al War Childhood Museum a Sarajevo (*). L'ideatore ha chiesto, a chi era bambino durante l'assedio, di portare un oggetto di quel periodo e di scrivere cosa ha rappresentato e cosa rappresenta per lei/lui. È un museo delle piccole cose, come la valigetta di Miss Petticoat, "tutte le mie memorie sono in questa valigia". 
Lo scorso anno abbiamo chiesto a Faruk Sehic, scrittore bosniaco, cos'è la guerra. Ci ha risposto "è una gomma da cancellare". La guerra cancella. Cancella le vite ma non sempre riesce a cancellare la memoria che resiste anche attraverso la determinazione di donne e uomini che scelgono di non arrendersi all'oblio. Questo attaccamento talvolta può essere continua fonte di sofferenza, più spesso ci dovrebbe ricordare chi siamo, da quale storia veniamo perchè nel salvare la memoria possiamo salvare un pezzo di questo mondo. Per questo quel “anche io” scritto da Iva nel titolo del suo commento è un potente collante, un cortocircuito pazzesco tra storia e attualità. In quel “anche io” leggo la capacità di Iva di leggere e riconoscere, nelle attuali cronache, la sua stessa storia, di non restarne indifferente e di sapere da quale parte stare.


Sono stata profuga anche io

Avevano già iniziato a sparare sulla città. Una sera papà ci ha detto: "Domani andate al mare". Ho preparato la valigia: costume da bagno, sandali e il mio diario. Si va al mare! 
Il mattino dopo, mio fratello, mia madre, la zia e io, ci siamo aggregati a un convoglio che lasciava la città. Andiamo al mare... 
Il convoglio è stato fermato da persone mascherate. Ci hanno tenuti tre giorni in ostaggio.
Vedrò mai il mare?
Due mesi dopo sono arrivata in Olanda. E sto ancora lì. 
Tutti i miei ricordi sono in questa valigia. 
Iva, 1981.


3.       Chi mai riuscirà a raddrizzare la storta Drina?

Nel programma di viaggio avevamo scritto “navigando lungo il canyon della Drina da Srebrenica (lago Perućac) a Višegrad”. Višegrad, la città del ponte sulla Drina. Per chi ha letto il romanzo di Ivo Andric (*) è emozionante anche solo pensarci, per chi – venendo da Venezia - ama la vita sull’acqua arrivarci in battello navigando sul fiume non poteva che essere il modo migliore.
Alla fine è stata una giornata caratterizzata da forti contrasti, dove tutto strideva.
Il contrasto tra la bellezza del fiume e del parco nazionale del monte Tara e l’incessante pensiero che quel fiume è la più grande fossa comune dei Balcani dove tra il 1992 e il 1995 (ma precedentemente anche durante la seconda guerra mondiale) centinaia di persone sono state ammazzate e gettate nelle sue acque (**)
Il contrasto tra un aldiquà e un aldilà, dove la Drina è fiume di confine fin dai tempi dell’Impero Romano occidentale ed orientale e oggi tra Bosnia e Serbia, confine che può essere luogo di incontro o di scontro, luogo di scambio o di chiusura.
Il contrasto, nella narrazione fatta della guida a bordo del battello, tra quello che viene detto e gli omissis.
Il contrasto tra chi naviga stando sulla superficie e chi proprio non riesce a stare a galla ma si immerge fino al collo.
Il contrasto tra la finta Andrićgrad, l’outlet del nazionalismo dove a buon mercato si trovano simboli e segni piegati in una discutibilissima operazione di costruzione di identità serba che unisce Gavrilo Princip a Emir – Nemanja – Kosturica e il ponte di pietra fatto costruire da Mehmed pascià Sokolović, nel 1571, un ponte, appunto, esempio massimo di ciò che unisce ma che forse non basta costruirlo perché poi qualcuno lo attraversi.
Non si riuscirà mai a raddrizzare la storta Drina, cosi come con il "legno storto" di cui secondo Kant è fatto l’uomo non si potrà mai costruire qualcosa di perfettamente dritto, ma rimane forte la voglia almeno di provare a rimettere al loro posto le cose.



La verde Drina

(*) “Il ponte sulla Drina”, Ivo Andric
(**) Višegrad. L’odio, la morte, l’oblio (https://www.infinitoedizioni.it/prodotto/visegrad/)

4.       Essere o non essere

Al Centro di Identificazione per le persone scomparse di Tuzla (ICMP), Dragana sta lavorando ad un caso. Qui, da anni, si cerca letteralmente di mettere insieme i pezzi delle persone ammazzate durante il genocidio di Srebrenica, dare loro un nome e restituire alle famiglie il proprio caro scomparso. È un lavoro lungo, difficile e che purtroppo non vedrà mai la fine.
Come sempre la sua testimonianza è sconvolgente, resa ancora più dura dal fatto che questa volta, sul tavolo dell’anatomopatologa forense, vediamo dei resti umani sistemati, come si dice tecnicamente, in posizione antropologica.
Per spiegarci alcune cose sulla procedura di riconoscimento ad un certo punto solleva il cranio con la mano.  Ma Dragana non sembra vivere nel dubbio amletico, lei ha scelto chiaramente cosa vuole essere. Tenacia, professionalità, coraggio per essere dalla parte della verità e della giustizia.
Quella delle persone scomparse e non ancora ritrovate è una tragedia nella tragedia: ci sono madri, le donne di Srebrenica, che attendono di poter dignitosamente seppellire i loro cari portati via dalla violenza del conflitto. Quest’anno, nelle celebrazioni a Potocari dell’11 luglio verranno sepolte 33 persone riconosciute nell’ultimo anno. Ma, oltre alla sepoltura, ogni anno ci sono riesumazioni perché nel lavoro di ricerca si possono trovare altri resti che le famiglie desiderano riporre insieme ai resti precedentemente inumati ma aprendo ogni volta una ferita che fatica a rimarginarsi anche per le condizioni in cui si vive a Srebrenica dove il termine “genocidio” viene negato da parte della maggioranza dei serbo-bosniaci (*) 



5.       I Bosniani

Mi danno il suo numero dall'ambasciata italiana, ci serve un interprete per fare la denuncia del furto del portafoglio di Noemi. Parla bene italiano, il suo aiuto è prezioso. Lara si definisce freelance: guida turistica, compravendita case, qualche lavoro con l'ambasciata. Dopo aver completato le pratiche le chiedo se ha voglia di bere un caffè, accetta volentieri. E si racconta, mi dice che è sarajevese e poi aggiunge di essere serbobosniaca. Non le chiedo l'età ma più o meno siamo della stessa generazione. Sono rimasti nella Sarajevo assediata per i primi 18 mesi poi, pagando due mafie, quella bosniaca e quella serba, hanno lasciato la città. È tornata a guerra finita, nel 1998. Dei suoi compagni di classe sono ritornati solo in 4 gli altri fanno parte della diaspora, tornano d'estate, molti comprano casa, pensando ad una vecchiaia in patria dove con una pensione italiana, svizzera, austriaca potranno vivere in modo agiato. "Avrei potuto lavorare là - indica il palazzo del parlamento che si trova poco lontano - ho un curriculum pesante ma dovrei avere la tessera di un partito nazionalista. Molti miei amici l'hanno fatto, io non lo farò mai". Non c'è rabbia nella sua voce, solo una grande determinazione. E la mia ammirazione.
PS vorrei ricordare anche Damir, autista di autobus a Sarajevo, che ha ritrovato la carta di identità che era stata rubata assieme al portafoglio e l’ha riportata all’ambasciata. L’abbiamo chiamato per offrirgli una “ricompensa”, ci ha ringraziati del pensiero e ci ha detto di non preoccuparci e che non ci voleva far perdere altro tempo. Grazie Damir.
Tre ore di macchina, da Sarajevo a Srebrenica, senza quasi parlare. Ci proviamo ogni tanto ma Elvis non parla italiano né inglese, io non parlo bosniaco.
Butto lì qualche parola, qualche nome di possibili amici in comune tra le persone che in questi anni ho conosciuto a Srebrenica. Mi fa segno di aprire il vano portaoggetti della sua auto. C'è una busta portafoto. Mi fa segno di aprirla e di guardarla. È la foto di un adolescente, la gamba fasciata ma il volto sorridente... Dice che è lui, a Srebrenica durante la guerra.
Ci fermiamo a Potočari. Entriamo in silenzio, Elvis ci precede, si avvicina al monumento che porta iscritti i nomi di tutte le vittime del genocidio. Ci indica un nome tra gli oltre 8.000, passandoci sopra con il dito, come una carezza. "My father, 1960". Trattengo a stento le lacrime mentre usciamo in silenzio.
Zijo scherza sul suo essere rom e su come ha scoperto le sue origini. Da bambino, molto piccolo, era stato dato in affido ad una famiglia in Slovenia, era una pratica in uso nella ex Jugoslavia: quando una famiglia si trovava in difficoltà nel crescere dei bambini si ricorreva all’aiuto di altre famiglie. Un giorno, sotto casa, è arrivata una macchina “zigana” e lui si è spaventato perché pensava che degli zingari lo volessero portare via. Così ha conosciuto la sua vera famiglia. Di famiglie poi ne ha avute molte, l’istituto in Montenegro dove è stato accolto dopo il massacro della sua famiglia nel 1992 ad opera di un gruppo di paramilitari serbobosniaci, l’orfanotrofio di Tuzla, la casa Pappagallo sempre a Tuzla che sostiene i neomaggiorenni nel percorso verso una completa indipendenza fino alla famiglia tutta sua, con sua moglie Ramiza e la bellissima piccola Sara. Ma mi piace pensare che oggi Zijo sia anche parte di una famiglia “allargata”, fatta di tutti noi che ci sentiamo parte della sua storia.
Perché Zijo ha una straordinaria capacità, quella di “sparigliare” le carte. Il suo matrimonio è stato definito anche dalla stampa locale come il ritrovo di una piccola Jugoslavia dove c’erano proprio tutti: montenegrini, serbi, bosgnacchi, croati, rom, ebrei. Lui sa guardare oltre le appartenenze, le differenze, le distanze. Ha imparato a distinguere e superare le categorie, gli schemi e i pregiudizi. E della cultura rom ha mantenuto un tratto prezioso: sa prendere da tutti ciò che trova di buono, per questo è un vero king, “a gipsy king”
Osmače è un villaggio nei dintorni di Srebrenica ed è una tappa obbligatoria dei nostri viaggi. Lì Zuhra ogni anno ci prepara uno squisito e abbondante pranzo contadino. Lì ascoltiamo commossi le storie di Muhamed e di Omer, storie di resistenza e ricostruzione, storie di andata e di ritorno. Loro sono testimoni diretti di ciò che sono state le guerre degli anni novanta e, grazie alla confidenza che si è venuta a creare nel corso degli anni, il loro non è mai solo un racconto. Mi colpisce quest’anno la minuziosa ricostruzione demografica dell’attimo precedente al conflitto. Muhamed snocciola numeri esatti, non dice “circa 1000 persone vivevano qui”, no lui dice 941 persone vivevano qui, ci dice il numero esatto di uomini e donne, di adulti e bambini. È come se il numero esatto, preciso all’unità fosse un invito a ricordare che dietro ogni numero c’è una persona, non ci può essere approssimazione quando si parla di vite umane, non c’è un “tanto al kilo”. E molte di quelle persone non ci sono più, non c’è più suo padre che ora sarebbe felice nonno di due splendide e vivaci creature, Azam e Mustafa, non ci sono il fratello di Omer, la cognata e il figlio che portava nel grembo ammazzati vigliaccamente nel genocidio di Srebrenica nel luglio del 1995 e i cui resti sono stati ritrovati e sepolti solo lo scorso anno.  Ma qui, come scrive il poeta bosniaco Mak Dizdar ripreso alla Kapja a Tuzla, il memoriale della strage di giovani il 25 giugno del 1995,
“Qui non si vive solo per vivere. 
Qui non si vive solo per morire.
Qui si muore per vivere”
....
Se Bihać è stata tappa del nostro viaggio è anche perché per questa città, nell’ultimo anno, sono transitate 30mila persone migranti. Qui il loro viaggio, iniziato in Afghanistan, in Pakistan, in Iran, in Siria, in Algeria si è fermato, sbattendo contro la “fortezza Europa”. A Bihać, nell’ultimo anno, la Croce Rossa ha gestito alcuni campi di accoglienza distribuendo 1 milione e 800 mila pasti e altrettanti vestiti. Ce lo racconta Selam, operatore della Croce Rossa che ci aiuta a capire meglio come certi meccanismi e certe decisioni prese dall’alto si scaricano poi a terra sulle spalle di chi, come lui, lavora per restituire un po’ di dignità a questi giovani in cammino.

Ci racconta che i migranti hanno un obiettivo molto chiaro che è quello di arrivare in Europa, per questo e grazie all'esperienza di viaggio che hanno già sulle spalle sono disposti a vivere con poco e adattarsi a tutto.
La Croce Rossa lavora “al buio” senza alcuna copertura formale e ufficiale da parte dello Stato. Lo fanno perché sono la croce Rossa. Lo fanno perché è una crisi umanitaria assolutamente non gestita, in cui le persone sono abbandonate a loro stesse, alla deriva anche sulla terraferma, naufraghe sulla rotta balcanica. Di fronte a questo lapidario ci dice "io le spalle non le volto".
Parliamo di violenza ed è interessante ascoltare cosa, in modo molto laico, ci racconta.
C’è una volenza della polizia locale che lui spiega essere l'effetto finale le cui cause a monte vanno ricercate soprattutto nella mancata gestione del fenomeno. In città i migranti si muovono in gruppo, sanno come chiedere le cose, sanno come muoversi spesso sanno come attaccare. Tra gruppi di migranti si verificano episodi di violenza frutto delle condizioni in cui si trovano a vivere per questo servirebbe lavorare sul versante della prevenzione, se si lascia la giungla vale la legge del branco
C’è poi la violenza della polizia di frontiera che non è necessaria, non è funzionale a ridurre o contenere una situazione più grave ma è strumentale, è usata come deterrente, che sia di esempio per gli altri di quello che può succedere, così vengono rubati soldi, rotti i cellulari, presi a manganellate. Probabilmente se parlassimo con le autorità di frontiera ci sentiremo rispondere: “è l’Europa che ce lo chiede”.
Con Selam andiamo al campo "temporaneo" di Vucjak. Dista 15 minuti da Bihać, in mezzo al nulla ma a soli 10km dalla frontiera croata che rimane oltre le montagne. 10 km per chi ne ha alle spalle più di 1.000 sono nulla. Il campo è stato voluto dalla municipalità contro le indicazioni del Cantone, dello Stato e della commissione europea. È come un trampolino di lancio per cercare di entrare in Europa. Molti ci raccontano di averci provato ma di essere stati respinti dalla polizia di frontiera croata.
Bashir, 21 anni, viene dall'Afghanistan dice che ha impiegato un mese a piedi per arrivare qui senza problemi ma ora è bloccato. Scappa dai talebani e ci spiega, mimando, che al fratello hanno tagliato la gola. "Quando riaprite le frontiere come il 2015?"  Vuole andare in Germania dove molti membri della famiglia sono arrivati negli anni scorsi.
Nel campo ci sono ca. 500 persone (difficile conoscere il numero esatto ci sono continui arrivi e partenze), servizi igienici, un tavolino in cui si vendono snack e energy drink e che chiamano eufemisticamente negozio, una cassa con della musica, un generatore con una cinquantina di prese per consentire di ricaricare il telefono in turni da 5min, fanno la fila davanti a quel groviglio di cavi che è come un cordone ombelicale che li tiene collegati al mondo, qui, fuori dal mondo dove le giornate passano nella logorante attesa del prossimo tentativo di “bruciare la frontiera”. È qui dove mi vergogno di essere Europeo.
Qualche giorno prima il dramma dei migranti ci aveva già colpito come uno schiaffo. Due ragazzi afgani, a Sarajevo, sono riusciti ad infilarsi durante la notte nel vano motore del nostro autobus parcheggiato di fronte all’hotel. Ora provate per un momento ad immaginare due persone letteralmente incastrate nello spazio angusto del vano motore di un autobus. Senza potersi muovere, senza acqua nè cibo, senza poter espletare bisogni fisiologici, con un caldo infernale - la temperatura esterna quel giorno era di 35/36 gradi, il bus è rimasto per alcune ore fermo sotto il sole a Potočari la temperatura lì dentro ha facilmente sfiorato i 50 gradi - fermi lì dentro per almeno 8/10 ore. E nel momento in cui sono stati trovati immaginate cosa possono aver provato quando hanno capito che non erano in Italia, come probabilmente speravano avendo visto la targa del bus, ma a Srebrenica, dalla parte opposta, di nuovo vicini al confine con la Serbia. Li ha portati via la polizia della Repubblica Srpska, non sappiamo nulla di loro ma proviamo una enorme tristezza e una infinita rabbia.
Bekir, Muhamed, Omer, Azra, Selam, Valentina, Amra, Lara, Elvis, Zijo, Jovan, sono i “bosniani”, gli abitanti di questo strano e complesso mondo che è la Bosnia ed Erzegovina. Talvolta, in una terra ancora avvelenata dalle scorie tossiche delle propagande nazionaliste dove la comunità internazionale non ha saputo offrire efficaci e duraturi antidoti, questi “bosniani” ci sembrano degli alieni per la loro scelta di percorre la via della convivenza, del dialogo, del tradimento della compattezza etnica. Navigano in “direzione ostinata e contraria” portando su di sé il peso delle loro scelte per le quali nessuno farà mai alcuno sconto. Forse sono pochi ma noi speriamo che siano abbastanza. 

Campo di Vucjak

6.       Ventisette

Quello che facciamo non è solo un viaggio nello spazio e nel tempo. È anche un viaggio dentro ciascuno di noi, è un viaggio per capire chi siamo e cosa vogliamo essere. È un viaggio spesso doloroso ma che possiamo continuare a fare perché ogni volta viaggiamo con delle persone straordinarie che si mettono i gioco, che mettono in comune ciò che stanno vivendo. E quindi grazie a Stefania, Noemi, Samantha, Eleonora, Anna C, Antonia, Marina, Silvia, Carla, Federica, Anna M, Cristina, Francesca, Francesco, Luca, Mariangela, Chiara, Fabrizio P, Fabrizio R, Martina, Andrea, Francesco, Diego, Simona, Giuseppe, Elisa e Denis.



Morte al fascismo, libertà al popolo!

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